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E se le grandi dimissioni fossero un buon segnale?

Abbiamo passato anni a teorizzare un sistema all’americana, dove la mobilità è normale, forse finanche eccessiva per i nostri meccanismi sociali e culturali, e alla prova pratica ci spaventiamo degli effetti e cerchiamo a tutti i costi di rintracciare negatività di fondo.

Alessandro Paone

Le grandi dimissioni all’italiana producono nella mia immaginazione la scenografia di una conversazione familiare in cui una nonna si porta le mani al volto ed esclama in direzione del nipote dimissionario – per questo dissennato – una batteria incessante di: ripensaci – non commettere imprudenze – seguiti dall’immancabile: devi farti una famiglia / tieni famiglia – ai miei tempi si pensava alla stabilità (sbam!).

Ammesso che le dinamiche siano ancora queste (al Sud più che al Nord, e non a caso), è così perché c’è un mondo in mezzo a noi che guarda ciò che accade con gli occhi di ieri, e un altro che semplicemente lo vive ma non riesce a farsi limpidamente comprendere, di modo che il suo agire appare oscuro e viene facilmente incasellato entro schemi logici e narrativi negativi, superati, vecchi.

Molti di noi sono figli di una generazione che vedeva nella stabilità del singolo posto di lavoro l’architrave attorno alla quale costruire la progettualità della vita, a tal punto centrale nella cultura sociale del lavoro da venir giuridificata nei contratti collettivi in cui ancora oggi è predominante l’idea di fondo che la crescita è correlata all’anzianità (e poi ci domandiamo perché abbiamo un problema di produttività: perché le radici delle sue regole sono antitetiche).

Si intravede l’ottica con cui si osserva il fenomeno delle dimissioni degli 1,66 milioni di italiani che negli ultimi nove mesi hanno deciso di lasciare il posto di lavoro. Il dato non ci svela quale sia il passaggio successivo ovvero se costoro sono rientrati nel mercato oppure no (fatto empiricamente molto improbabile). Ciò nonostante, tutto attorno è discussione sulle cause più o meno certe che per qualche oscura ragione devono essere negative, e così è un gran parlare di lavoro povero, desiderio di riappropriassi della vita mortificata dal troppo e precario lavoro, una discussione alimentata in primis dal sindacato che si posiziona promuovendo l’importanza della contrattazione come metodo risolutivo (per carità i temi sono reali, ma perché allora invece di proporla non la pratica dato che ne ha la facoltà?).

I conti non tornano: chi l’ha detto che il dato sia sintomo di negatività? E se fossimo in presenza di un segnale positivo e inatteso di ammodernamento del sistema. Nessun allontanamento dal lavoro per ragioni (esclusivamente) salariali o di qualità della vita bensì mobilità lavorativa che nel mismatch fra domanda e offerta ha finalmente generato nel mercato del lavoro quel dinamismo che spinge le persone a cambiare con maggiore naturalezza, processando internamente con minori tensioni il cambiamento occupazionale.

Non si può escludere il consolidamento di una dinamica di cambiamento che sta divenendo normale, alla cui base vi è nelle persone la maturazione del pensiero che stabilità occupazionale non significa, per forza, stesso posto per tutta la vita bensì un mercato in grado di assorbire il lavoro costantemente durante la vita professionale di un individuo, in una molteplicità di luoghi e competenze.

Abbiamo passato anni a teorizzare un sistema all’americana, dove la mobilità è normale forse finanche eccessiva per i nostri meccanismi sociali e culturali, e alla prova pratica ci spaventiamo degli effetti e cerchiamo a tutti i costi di rintracciare negatività di fondo. Non vorrei ciò denotasse un certo provincialismo ed il rifiuto dell’idea di cambiamento e dell’accettazione di ciò che è diverso, un processo che richiede sforzi politici e normativi importanti in una materia, quella del lavoro, tanto complessa quanto lasciata sullo sfondo dell’azione politica stante la sua naturale vocazione alla impopolarità.

Siamo rimasti imprigionati nella discussione familiare, tra le mani al volto della nonna, e vogliamo illuderci che la crescita possa ancora essere una conseguenza della anzianità occupazionale. Se così fosse, oltre a sbagliare lettura sbaglieremmo sicuramente nella creazione delle condizioni perché il nostro sistema lavorativo possa esercitare in tempo breve una qualche forma di attrazione e resistere al costante impoverimento di giovani ed al calo demografico.

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